Cuesta sale in cattedra: «Allenatori, siate credibili e competenti»

L‘AIAC di Parma a lezione da Carlos Cuesta. Il maiorchino è salito in cattedra nella serata di gala dell‘Associazione Allenatori Italiani di Calcio del comitato provinciale, in cui si assegnava il 33° premio Dante Boni.

Relatore dell‘incontro formativo dal titolo «Settori giovanili e prime squadre in diverse realtà europee: le esperienze di Carlos Cuesta», il tecnico del Parma ha spiegato le origini del suo cursus honorum da allenatore. Un percorso iniziato, 15 anni fa, nel vivaio di quel Santa Catalina Atlético che viveva come una seconda casa, anche grazie al lavoro della mamma ricoperto all‘interno del centro sportivo del club maiorchino: «Aveva il bar nel club in cui io giocavo: io giocavo e facevo i compiti da lì» ha iniziato così, presso la sala stampa dello stadio Ennio Tardini, il suo lungo intervento il 30enne spagnolo.
«Ho avuto la fortuna che il mio allenatore mi propose di fare il vice con i bambini di 6-7 anni: mi è piaciuto e ho iniziato a farlo in modo più ripetitivo. Ho giocato e allenato fino ai 18 anni, fino quando ho dovuto fare la scelta per l‘Università. Mi ero chiesto cosa volessi fare nella vita. Mi risposi che la mia passione è il calcio: invece di un altro lavoro volevo svegliarmi la mattina e andare ad allenare. Questa era la mia visione e il mio sogno. Ho studiato scienze motorie per aumentare la probabilità di avere il calcio come lavoro, ma ho dovuto spostarmi da Maiorca a Madrid. Lì, ho iniziato a fare della mia passione il mio lavoro. Poi, tutto è andato più rapidamente, in modo inaspettato. La mia famiglia mi ha supportato, mi ha lasciato fare, dandomi libertà. Io ci ho messo passione, disciplina e determinazione: ho dedicato 14-15 ore al giorno solo a quello»
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Nel corso dell‘incontro, Cuesta ha risposto a alle domande dei colleghi dilettanti, toccando diverse tematiche care ai mister parmensi di settori giovanili e non. Fra queste anche il timore di non essere ascoltato da giocatori più grandi di lui. «All‘inizio avevo paura che i giocatori non mi ascoltassero, avevo tanti dubbi. Fa parte della vita. Ma ho provato due cose: avere un po‘ di strategia e allo stesso modo essere me stesso. Ho iniziato dall‘essere una buona persona, perché solo così gli altri potranno avere rispetto e fiducia di te; poi a essere il più competente possibile, perché il giocatore cerca dall‘allenatore solo che lo renda migliore. Ho imparato ad ascoltare molto, a osservare le persone e a intervenire solo quando ero certo di dire una cosa che aveva un senso: così ho iniziato a costruire rapporti di fiducia professionale con giocatori più grandi di me».

Cuesta ha parlato anche dell‘importanza di creare dei legami professionali con i componenti dello staff tecnico, sottolineando l‘importanza di delegare i compiti del lavoro quotidiano sul campo. «Di fianco a me non voglio gente che mi dica yes, sir, ma why, sir?. O cambi idea o è più forte un‘idea ragionata: per me, di fianco devi avere gente di persone di qualità. A volte l‘allenatore deve avere il telescopio per avere una prospettiva diversa, ma anche con il microscopio per andare nel dettaglio».
E ancora: «Ci dev‘essere un‘idea molto chiara di come vivere il calcio e deve essere condivisa con degli specialisti nel tuo staff. Io il mio staff ho provato a costruirlo non dai rapporti personali, ma da quelli professionali; essere una buona persona non è negoziabile, ma non è il motivo perché ci sei, è il minimo per cui ci sei. Devi aggiungere valore. Nessuna delle persone che ho di fianco a me oggi erano miei amici prima di venire a Parma: sono rimasto impressionato dalle loro qualità professionali».

Tra i passaggi salienti della lezione di Cuesta anche un rivisitazione del motto tipicamente juventino secondo cui vincere è l‘unica cosa che conta. Cuesta non la pensa propriamente come professato dal club piemontese, in cui fece un anno di apprendistato nel 2018/2019: «La vittoria non dico che non sia importante. Vincere conta, ma non è la cosa più importante. Devi sapere come vincere. Se togli degli aspetti che sono fondamentali per la crescita dei giocatori, secondo me non è giusto».
Il teorema cuestiano muove a partire dalla crescita professionale dei calciatori: obiettivo che tutti gli allenatori, di qualsiasi categoria, dovrebbero condividere a discapito del risultato. «Gli allenatori devono sviluppare giocatori che dopo possano essere più vicini possibile a diventare dei professionisti. Il problema è che una vittoria la puoi misurare: è tangibile, come i 3 punti o un premio. Una crescita non la è. Tante volte noi siamo il risultato del nostro passato, che non è visibile agli occhi degli altri.  Se potessi dare un consiglio, è valutare le persone per quello che fanno e non solo per quello che ottengono. Il risultato non viene in un giorno: ci vuole tempo. Noi allenatori tante volte, a livello giovanile, viviamo con fretta e ciò diventa un problema. E chi paga sono i ragazzi. L‘Italia è calcio: io sono innamorato della cultura italiana, che è piena di calcio. Ma sento che c‘è un problema alla base, un problema di filosofia, di pensiero: tante volte non è colpa dei giocatori, ma è colpa nostra».

Da studente a professore. Cuesta ha pienamente superato l‘esame e ha dimostrato che c‘è sempre da imparare - anche dai più giovani - partendo da una base, per tutti, formativa: quella dell‘ascolto.

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